Il progetto italiano per ricostruire Gaza

Lo Iuav di Venezia lavora a questo piano già da anni, che con l'aggravarsi del conflitto, scende in campo con le Nazioni Unite per proporre un intervento
Un render della terza fase del piano di ricostruzione di Gaza quella di attuazione
Un render della terza fase del piano di ricostruzione di Gaza, quella di attuazioneFoto: IUAV

Anche se la guerra a Gaza non è ancora terminata, sta prendendo piede un piano per ricostruire in questo territorio e a realizzarlo sarà un ateneo italiano, lo Iuav di Venezia. Nei giorni scorsi è stato siglato un protocollo di intesa con lo United Nations Development Programme Regional Bureau for Arab States, l’organizzazione che si occupa dello sviluppo di diciannove paesi arabi per conto delle Nazioni Unite. L’università veneziana, che era già al lavoro sul progetto ben prima del 7 ottobre, ha preparato un piano strategico, dove sostanzialmente sintetizza cosa andrà fatto e quando, per riportare alla vita la comunità. E, dice a Wired il rettore Benno Albrecht, “nelle prossime settimane nascerà un'agenzia sotto il nome di Gaza Reconstruction Agency, sempre sotto l'egida dell'Undp, per prendere il timone dei lavori.

L’esempio di Londra

Come già accaduto in Ucraina per Mikolayv – lo avevamo raccontato su Wired -, si cerca di guardare oltre la tragedia. L’esempio viene dalla storia, come nel caso di Londra, quando il masterplan per la ricostruzione postbellica della capitale britannica risale al 1943, a guerra ancora in corso – e quando la vittoria degli Alleati era tutt’altro che all’orizzonte - . Il pragmatismo, allora, prevalse sulla disperazione, e a conflitto terminato si poterono aprire subito i cantieri, contribuendo al recupero non solo economico, ma anche psicologico della popolazione.

Certo, a Gaza le condizioni sono molto diverse. A cominciare dalla conta dei danni che, come riportato dall'Undp, ha il 60% degli edifici distrutti e trentaquattro milioni di metri cubi di macerie, cosa che avrebbe fatto regredire l'indice di sviluppo umano di quattro decadi. In più, ha anche una collocazione geografica molto particolare, schiacciata tra il mare da una parte – il cui accesso è controllato da Israele – e il confine con lo Stato ebraico dall’altra.

Il lavoro è tanto e c'è anche il tempo da battere, perché occorre dare il prima possibile una casa a milioni di sfollati. Se non altro, i quaranta chilometri di striscia costiera non sono, sottolineano il rettore Albrecht e il professor Jacopo Galli i più densamente popolati del pianeta. “A livello di densità abitativa, Gaza è paragonabile a una grande città europea come Vienna o Bruxelles” dicono a Wired. “Ci sono zone più densamente popolate e altre meno, con spazi più liberi”. Il rischio, affermano, è che, procedendo in ordine canonico e cominciando da quelle dove maggiore è la presenza di insediamenti, si arrivi tardi, anche solo spostare le macerie richiederà lustri, e bisogna fare in fretta, se si vogliono evitare recrudescenze. Perché, gli accademici ne sono convinti, “da una buona ricostruzione passano le chance di pace”.

Invivibile

Il punto, prosegue il rettore, “è che da almeno cinque anni si dice chiaramente che Gaza è invivibile. “La ricostruzione - aggiunge - può essere l’occasione per fare un salto tecnologico che porti la città sulla frontiera della conoscenza: dai sistemi costruttivi all’energia, con l'impiego di forme di autoproduzione, dall’acqua ai trasporti. Si può sperimentare tutto, e questo consentirebbe di avere, nel giro di un decennio, una delle città più avanzate del mondo”.

I contatti con le Nazioni Unite erano già rodati dalle collaborazioni sulla ricostruzione in Iraq, in Siria e in Ucraina. Lo Iuav, dice inoltre il rettore, può vantare un’esperienza “quasi centenaria” nella ri-progettazione di spazi urbani colpiti da conflitti o calamità naturali.

Proposta diversa

Bisogna avere il coraggio di fare una proposta diversa rispetto al passato, come suggerisce Albrecht, “Nel corso della nostra esperienza su questi temi, condensata in un libro uscito l'anno scorso, abbiamo analizzato un centinaio di situazioni, il problema è superare prassi oggi inadeguate". Chiariamo. “La nostra strategia è completamente diversa da come hanno agito le agenzie internazionali negli ultimi trent’anni, con procedure basate sul modello del piano Marshall fatto da grandi finanziamenti e altrettanti debiti. Si è sempre lavorato per strati, prima si rifanno tutte le strade, poi tutte le scuole e dopo si comincia con i generatori. Ma che senso ha avere le aule se poi manca la corrente per illuminarle, come accaduto in Iraq, paese ricostruito tre volte? O a Beirut?".

Tutta sbagliata la teoria applicata finora? No, certo. Forse a cambiare sono stati i conflitti, sempre più asimmetrici. “Questo metodo di ricostruzione - osserva Albrecht - funzionava con Stati stremati ma forti. Oggi tutto è molto più ambiguo e fluido. Non sono chiare le soglie oltre le quali si vince e si perde. Il meccanismo top-down è in completa crisi. Noi ne proponiamo uno che procede dal basso". Piccoli prestiti, piccole imprese di costruzione, si riparte da una cellula via l'altra, quindicimila persone con le strade, il gas, le scuole. In gergo, un approccio bottom up.Questo modo di procedere permette di ottimizzare i lavoro e di generare processi di emulazione tra una cellula e l’altra. Pensiamo che sia quello più efficace, dato il contesto”. Con una buona ricostruzione, ne è convinto Albrecht, “il ritorno conflitto è molto meno probabile: sbagliare adesso porterebbe a iniquità, deficit di democrazia, mancanza di giustizia. Pensi solo agli assetti proprietari".

Chi ci mette i soldi

Ma chi ci mette i soldi? Risponde il rettore. “I soldi li sta raccogliendo lo Undp, che si occuperà del coordinamento dei donatori. Noi agiremo da integratore di competenze. All'Onu si aspettano grande aiuto da parte dei paesi arabi del Golfo Persico, poi dall'Europa, dall'America e, infine , anche da Israele”. Con un monito, diretto allo Stato ebraico: “Non si può ricostruire se non si ha un porto, diventa tutto enormemente più complesso”. E le acque territoriali, al momento, sono interdette.

Quanto ai costi: “Sette miliardi di dollari per l'early recovery, la prima fase di lavori", dice Albrecht. “Poi alcune stime parlano di una sessantina di miliardi di dollari, ma forse sono prudenti, e dipende anche da come si deciderà di contabilizzare le spese. Ciò che è certo è che si tratta di un grande impegno, che però creerà lavoro in un meccanismo circolare”. Si tratta di un investimento.

Non avete paura delle polemiche?, chiediamo. “In realtà la nostra è proprio una risposta. Lo Iuav aiuta in maniera fattiva, anche se non tutti, anche tra quelli che ci occupano l'ateneo, lo capiscono”. Il rettore sottolinea che tutte le iniziative sono concordate con il ministero degli Esteri. L'università veneziana sta coinvolgendo altri partner. “Porteremo a bordo quattro università palestinesi, due delle quali sono distrutte, e non solo le facoltà di architettura. C'è bisogno di competenze trasversali, che noi integreremo. Altre università italiane? Sì, ci saranno, ma non posso dire quali".